I personaggi innocenti rischiano di diventare noiosi o protagonisti così perfettini da far prudere le mani a qualsiasi lettore, ma non è detto
Ormai ci siamo abituati: grandi imperi, guerrieri e pezzi grossi d’ogni genere si contendono x, un artefatto dagli enormi poteri, ma l’unico a poter passare il magico test del vattelappesca che occorre per impossessarsene è l’umile e giovane protagonista, che con gesti di bontà fatti a caso in circostanze difficili e disperate conferma la sua purezza interiore e ne viene ricompensato da un’entità superiore o da chiunque abbia preparato il suddetto esame.
A volte funziona e a volte no: ha senso l’esame magico? Chi lo ha preparato è veramente qualcuno che si intende di moralità? La storia può sopportare questo tipo di giustizia poetica (i buoni vincono e i cattivi perdono/sono puniti) senza perdere di credibilità? Ma soprattutto, lui o lei merita davvero x? Magari non sa come usarla o è così ignorante delle cose del mondo che finirà per far danni anche se non vorrebbe.
E qua arriviamo a una delle tre cose che possono rovinare un personaggio puro/buono secondo il mondo e l’autore: la (falsa) equivalenza tra innocenza e ignoranza. Coco, la protagonista del manga Atelier of witch’s hat è un personaggio buono e positivo, ma questo non le risparmia la progressiva e dolorosa presa di coscienza di come funzioni il mondo dei maghi e delle sue numerose ombre. Non mancano i momenti di sconforto, ma lei sa andare oltre e continuare anche se, come lei stessa ammette, più va avanti più prova paura e confusione. Questo è da sempre un ottimo modo di scrivere un personaggio innocente: partire da un iniziale stato di ignoranza per arrivare man mano a una conoscenza maggiore e più vicina al complicato e sfaccettatissimo vero senza perdersi d’animo o diventare cinici e cattivi. Lo status di ignoranza non dura per sempre, a meno che non sia una commedia: è divertente vedere quanto ci mette il personaggio a a rendersi conto dei sentimenti di b o della situazione c, ma se il momento di realizzazione non arriva mai la storia diventa una prigione coi muri di brodo allungato.
Un’altra falsa equivalenza che rende insopportabile un buono è tra bontà e scarsa caratterizzazione. Può essere interessante capire come faccia il/la protagonista a non fare una strage nei momenti difficili: a quale speranza si aggrappa per restare buono/a/gentile anche quando ha il mondo contro? Si fa mettere i piedi in testa e deve imparare a farsi valere senza prevaricare? O ha già imparato dopo una certa serie di eventi e se sì quali? Come? Ha subito un lutto e non ce la fa a uccidere anche quando la situazione/il mondo in cui si trova (e forse anche il lettore) lo giustificherebbe o addirittura lo richiede? Come reagisce?
Vi sono casi in cui un protagonista buono che non vacilla è un ingrediente positivo per la storia: magari è un bastione di speranza come Superman o una figura idealizzata da cui trarre ispirazione e conforto.
Questo, tuttavia, non funziona se è un essere umano realmente esistito di cui si vogliono far passare sotto silenzio dei crimini o se si presenta un punto di vista in modo sbagliato: bianco e nero e senza sfumature.
Se una storia presenta un personaggio come buono ma quest’ultimo agisce in modo arrogante, non deve mai faticare per niente perché l’universo lo ama e gli dà poteri, forza, amici e bellissimi spasimanti senza che debba mai alzare un dito e maturare come persona – e perché dovrebbe se tutti i buoni sono allineati e la pensano e agiscono come lui? – diventerà praticamente impossibile farci il tifo. Evitatelo, vi prego.
Bontà non significa arroganza nemmeno se si è nel giusto. Purtroppo troppe persone e personaggi lo dimenticano.
E voi? Vi piacciono i protagonisti buoni o vi annoiano? O preferite che lo diventino verso la fine? Fatemi sapere nei commenti e continuate a seguirmi!
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